N°137 Settembre Ottobre

96 Food&Beverage | settembre-ottobre 2021 Il successo dei prodotti free from è sotto gli occhi di tutti, evidente per la loro numerosità sugli scaffali e per il giro d’affari, prossimo ai 7 miliardi di euro nel 2020, in crescita del 3,3% rispetto al 2019, secondo l’Osservatorio Immagino. Sono tantissimi e si distinguono per l’indicazione in etichetta o sul packaging di claim che segnalano l’assenza o la minore presenza di qualcosa. Dai più salutisticamente importanti “senza glutine” e “senza lattosio” -che quotano oltre 3,9 miliardi di euro- a quelli che specificano “pochi zuccheri”, “poche calorie”, “senza zucchero”, “senza olio di palma”, “senza grassi idrogenati”, “senza sale”, “senza aspartame”, “senza conservanti”, ”senza Ogm”, ecc… Claim in alcuni casi usati in modo distorto, in barba al Regolamento Europeo (n.1169/2011) che dovrebbe garantire le scelte informate e sicure dei consumatori. Su questo l’Agenzia spagnola per la Sicurezza Alimentare e la Nutrizione (Aesan) ha preso una posizione chiara sollecitando la Commissione Europea a stabilire regole più precise utili anche a contrastare la concorrenza sleale che genera questo uso scorretto. In passato l’industria alimentare lavorava sulle “aggiunte” per nobilitare i prodotti. Alcune di queste persistono. È il caso di omega3, vitamine e fibre. Qualcuno ricorderà la pastina glutinata, cioè con aggiunta di glutine, proteina presente in molti cereali ora sul banco degli imputati. Oggi siamo alla sottrazione o alla mancanza. Siamo figli di una civiltà che nuoce a se stessa e anche il cibo è diventato potenzialmente dannoso. Prima è stata la volta dei residui di fitofarmaci e ora sono gli stessi componenti degli alimenti a essere “pericolosi” per la salute o percepiti come tali. Ed ecco che davanti allo scaffale del supermercato l’acquisto dei prodotti “senza” rassicura anche se sono “tarocchi”. Qualche esempio? Il claim “senza glutine” su prodotti che in natura non lo contengono come il riso, le patatine fritte, i succhi di frutta. Quello “senza lattosio” su prodotti in cui in cui l’assenza di latte è scontata, come ad esempio il minestrone. Il contenuto di lattosio può essere indicato solo su latti e prodotti lattiero-caseari in cui esso è stato scisso in glucosio e galattosio (la cui presenza andrebbe indicata in etichetta) dando origine a prodotti “senza lattosio” (residuo inferiore a 0,1 grammi per 100 grammi o millilitri) o “a ridotto contenuto di lattosio” (0,5 grammi per 100 grammi o millilitri). Il claim “naturalmente privo di lattosio”, invece, può essere correttamente usato per i formaggi che, senza intervento alcuno, non lo contengono, come Parmigiano Reggiano, Grana Padano e Gorgonzola. Per inciso, secondo il ministero della Salute i celiaci in Italia sono “solo” 214.239, eppure sono oltre 6 milioni a consumare prodotti privi di glutine. Quanto al lattosio, l’Efsa stima che il 50% della popolazione italiana sia intollerante. Dal glutine al lattosio oggi si lavora sulla sottrazione. E il marketing ne approfitta sottolineando l’assenza di ingredienti anche quando questi non sono presenti in natura negli alimenti Clementina Palese VERITÀNASCOSTE Il grande business dei prodotti senza

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