N°141 Aprile Maggio

84 Food&Beverage |aprile-maggio 2022 Da semplice ornamento a ingrediente delle ricette presenti in numerose cucine. L’autorità di Stefano Baiocco, chef di Villa Feltrinelli, e l’esperienza dei fratelli Manzoni all’Osteria degli Assonica Elena Bianco Sapore e freschezza con il fiore nel piatto SFIZIOFOOD Perché si dice “ditelo con un fiore”? Perché si è sedotti dalle calde tonalità brune del cioccolato? Il colore di un cibo influenza la mente e predispone positivamente onegativamente: la tinta ha un forte ascendente sulla percezione del gusto, tant’è che ovunque nel mondo gli chef hanno sempre aggiunto un tocco di colore per esaltare e i loro piatti. Su questo fenomeno si è scomodato persino un filosofo del calibro di Platone, che mise in relazione i colori ai quattro elementi fondamentali: rosso-fuoco, giallo-aria, verde-terra, blu- acqua. Quelle che in Platone erano mere intuizioni, sono state in tempi recenti confermate da studi psicologici nel campo delle percezioni sensoriali; attraverso la percezione visiva del colore e la sua penetrazione a livello fisico tramite il medium del cibo, attuiamo una sorta di transfert verso l’interno del nostro corpo delle qualità e delle valenze simboliche che un determinato colore rappresenta. Nella tradizione cinese, poi, con i colori si classificano anche i sapori: il rosso per l’amaro, il giallo per il dolce, il bianco per il piccante, il nero per il salato, il verde per l’acido. In Occidente, e soprattutto nell’area del mediterraneo, i cibi più nutrienti, riservati alle feste, erano prevalentemente di colore bianco (pasta o pane) o rosso (carne) e regalavano una percezione più positiva. Nelle comunità agricole, invece, non incontrava il colore verde negli alimenti, perché ricordava ai contadini la loro povertà alimentare fatta di piatti a base di verdure ed erbe. Gli alimenti di colore nero erano associati alla morte, al lutto, alla fame (nera), quindi i pani integrali che oggi consideriamo perfetti dieteticamente trovavano scarsa fortuna. Unica eccezione era il caffè, molto apprezzato, perché presente sulle tavole dei ricchi. Una simile gastrosofia cromatica non poteva certo esulare dai fiori, portatori per antonomasia di colore e bellezza, che nel corso dei secoli sono stati considerati una ricercatezza nell’adornare cibi e bevande. Già il Vecchio Testamento e il Corano contengono indicazioni sulle qualità gastronomiche di alcuni fiori, in primis i petali di rosa, usati nelle occasioni speciali. I Romani li utilizzavano assieme alle violette per profumare e insaporire le pietanze nei banchetti, mentre nella Londra di Shakespeare, durante gli spettacoli teatrali, si sorseggiava acqua di rose o liquore aromatizzato con garofani. Sempre con l’essenza di garofano l’imperatore Carlo Magno profumava il vino, mentre i nomadi del Sahara, per rinfrescare il palato e lavare mani e viso dopo un lungo e polveroso viaggio nel deserto, offrivano acqua di fior d’arancio. Virginia Galilei, figlia di Galileo, suora in un convento di Arcetri, ricorda la marmellata di fiori di rosmarino. Nell’Inghilterra di Elisabetta I si preparavano macedonie di frutta con le primule e si iniziò anche a schiacciare i girasoli per ricavare l’olio. Se nel nuovo Mondo i Padri Pellegrini usavano le violette per aromatizzare l’aceto e le calendule (margherite gialle) per insaporire i brodi di carne, in Italia e in Spagna si concepirono i primi fiori di zucca ripieni, a Milano si faceva l’insalata con i crisantemi e in Veneto il riso alla malva. A maggior ragione in Oriente, dove l ’armonia con la natura fa parte di filosofie come shintoismo, taoismo, Il rapporto tra i fiori e la cucina si dipana nel corso dei secoli. Passando dal Vecchio Testamento a Carlo Magno fino ai fiori di zucca, proposti per la prima volta in Spagna. Nel tempo c’è stata una continua scoperta delle potenzialità in tavola dei fiori, ingredienti fragilissimi

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