N°147 Aprile Maggio

84 Food&Beverage | aprile-maggio 2023 Hanno accompagnato la storia dell’uomo e le sue scoperte, in primis il fuoco, che hanno reso le loro carni sempre più appetibili. Oggi le troviamo anche nei menu di Georg Steinhauser e Heros de Agostinis Elena Bianco Cervo e capriolo dalla preistoria a oggi SFIZIOFOOD Gusto tipico della montagna, le carni di cervo e capriolo non solo sono tenere e saporite, ma anche fra le più genuine, perché di animali che vivono allo stato brado. Hanno un alto contenuto proteico e poche calorie, sono fonte di ferro e vitamine del gruppo B. Sono in effetti un alimento dalla storia antica, e i graffiti in caverne preistoriche di tutto il mondo indicano che i cervidi hanno nutrito gli uomini per migliaia di anni e cioè da quando l’Homo Erectus, intorno a un milione e mezzo di anni fa, per sopravvivere praticava già la caccia, alimentandosi di carne cruda. Fu poi la scoperta del fuoco a consentire grandi progressi, compresa la cottura del cibo, rendendolo più digeribile e più appetibile. Nel Paleolitico l’uomo affinò la tecnica culinaria: non solo cuocere, ma anche marinare, essiccare e affumicare, colpi d’ingegno per rendere commestibile e conservabile ciò che si cacciava. Ci fu un ulteriore passo avanti nel Neolitico, quando si cominciò a sperimentare ulteriormente le cotture in un abbozzo di cucina: cotture arrosto, sotto la cenere, stufato con il grasso della bestia o lesso. Tanto che in Sardegna ancora oggi si utilizza una tecnica antichissima, chiamata a carrardzu, la cottura sotto terra, Utiel nell’antichità, per mettere al riparo la prima preda catturata, per poi continuare a cacciare e ritrovare alla fine il pranzo pronto. Per arrivare a una ricetta, però, si è dovuta scoprire la scrittura, dopo il III millennio a.C. Dalla Mesopotania si tramandano le più antiche ricette e tecniche di cottura in tre tavolette risalenti al 1700 a.C., conosciute come le Yale Culinary Tables. Sono descritte fino a quaranta ricette, fra cui la prima di carne di cervo. In Grecia si praticava la caccia ai cervi, sacri alla dea Artemide, come rito di passaggio per i giovani aristocratici. Dopo aver prevalso sulle polis greche, i Romani nel II secolo a.C. conobbero i piaceri della caccia come sport delle classi superiori, e ogni battuta di caccia cominciava con un sacrificio alla dea Diana, regina dei boschi e protettrice degli animali. In cucina, poi, mascheravano i cibi, secondo il motto del cuoco della Roma imperiale Apicio: “Nessun capirà mai cosa c’è in questo piatto”. Apicio ci lascia quindi, fra le numerose ricette, quella per la cottura della cacciagione che veniva bollita più volte: “…quando l’acqua avrà bollito per tre volte si levi la bestia e gli si dia un altro bollore nella salsa indicata…”. Il cervo, dunque, era prima lessato poi arrostito. Oppure cucinato in umido, o marinato con sale e cumino e condito con una salsa di miele, garum, vino cotto passito. Nell’Alto Medioevo la caccia divenne, per la popolazione, uno dei principali mezzi di approvvigionamento del cibo e la carne subiva doppia cottura e speziatura. Per i nobili costituiva invece un esclusivo divertimento: il cervo, infatti, era cacciato in tutta Europa esclusivamente dai feudatari, in base a regole imperiali; quindi la carne degli ungulati appariva solo nei pranzi reali e nobiliari. Anche nel Rinascimento la caccia è il divertimento privilegiato dei nobili, ma in questo periodo si sviluppa il gusto per la presentazione dei piatti, compresa la selvaggina, che veniva sovente avvolta in crosta di pane. Il Seicento, secolo di transizione dalla grande Dalla Preistoria al Rinascimento, quando la selvaggina veniva avvolta nella crosta di pane, a Pellegrino Artusi con le costolette di daino alla cacciatora e il dolceforte per il cervo. Oggi la relazione tra i cervidi e l’uomo continua in preparazioni moderne

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