N°150 Novembre

96 Food&Beverage | novembre 2023 L’invasione della specie non si può combattere solo con il consumo in tavola. Occorre pensare all’export e a utilizzi alternativi, vista anche la mancanza di predatori. L’intervento del governo Clementina Palese VERITÀNASCOSTE Granchio blu, cosa fare contro l’emergenza Questa estate si è parlato parecchio e in modo superficiale dell’invasione del granchio blu disquisendo su caratteristiche organolettiche e ricette proposte dagli chef, quasi felici di poter gustare una pietanza di solito abbastanza costosa a prezzi abbordabili. Quasi potesse turbare le vacanze degli italiani, poco invece si è raccontato sui danni provocati dall’arrivo e dal proliferare di questa specie aliena originaria delle Coste occidentali dell’Oceano Atlantico. Sotto forma di uova la specie si è diffusa rapidamente nel Mediterraneo grazie alle correnti marine e, inserendosi in un ecosistema senza predatori a contrastare le sue popolazioni, ha determinato una vera emergenza. Una calamità naturale che sta azzerando la molluschicoltura, e non solo, in Italia e nel Mediterraneo, con la conseguente perdita di produzione stimata per il 2024 tra l’80 e il 90% minando la sopravvivenza dell’economia ittica di molte regioni. Un danno che durerà per molto tempo, perché riguarda sia il prodotto maturo, sia quello presente nelle nursery, le zone di semina: questi crostacei indesiderati stanno mangiando indistintamente tutto quello che trovano nelle lagune. Il granchio blu, nome scientifico Callinectes sapidus, sta colpendo gli allevamenti di cozze e vongole, ma anche quelli di orate, lungo la costa nord dell’Adriatico, dalla sacca di Goro, in provincia di Ferrara, alla zona del Polesine, come la Sacca degli Scardovari a Porto Tolle (Rovigo), fino a Chioggia (Venezia), e al Golfo di Trieste, in Friuli. Ma il crostaceo è ormai una minaccia anche nel Tirreno, a partire dalla Toscana dove sta assediando le coste da Orbetello, nel Grossetano, a Marina di Pisa. La sua presenza è stata segnalata lungo tutta la Penisola, dalla Puglia all’Abruzzo, dal Lazio alla Liguria, fino alla Sicilia. Oltre a devastare la biodiversità e l’ecosistema, danneggia anche le attrezzature di pesca, arrivando persino a tagliare le reti con le sue chele. Una minaccia per la sopravvivenza di oltre tremila imprese familiari nelle zone più colpite con la scomparsa di eccellenze alimentari. Se in questo quadro il rischio di perdita della nostra tradizione culinaria passa in secondo piano, non è pensabile affrontare questa emergenza con scorpacciate a base delle sue carni. Il tempo stringe, anche perché facile è alterare gli equilibri biologici, mentre è molto difficile ripristinarli reintroducendo una fauna antagonista e contenendo la popolazione. Due le destinazioni delle grandi quantità pescate: l’esportazione verso gli Stati Uniti, dove sono apprezzati in cucina, e il loro utilizzo in filiere alternative come biomassa per alimentare gli impianti biogas. Il Consiglio dei Ministri in agosto ha stanziato di 2,9 milioni di euro a favore di consorzi e imprese di acquacoltura che provvedono alla cattura e allo smaltimento.

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