L’isola aspra e selvaggia vede calare gli ettari vitati dedicati a uno dei vini dolci più affascinanti del Mediterraneo. Grandi e piccoli produttori sono impegnati nella salvaguardia di terrazzamenti e muretti a secco e, finalmente, anche le istituzioni si stanno muovendo: con Passitaly, evento di respiro internazionale, tentano il rilancio dell’economia dell’isola, basata sulla vite ad alberello e sul cappero
Barbara Amati
Entro la fine dell’autunno si saprà se l’alberello Pantesco, che da sempre garantisce la sopravvivenza della viticoltura a Pantelleria, entrerà nel Patrimonio culturale e immateriale dell’Unesco. Un riconoscimento sul quale l’Istituto regionale vini e oli di Sicilia, che ne ha portato avanti la candidatura, confida molto perché, come sostiene il Commissario straordinario dell’Irvo Nino Di Giacomo, “l’iscrizione in questa lista darebbe il giusto valore a una delle espressioni più antiche dell’agricoltura mediterranea e all’eccellenza enologica che ne deriva, il Passito di Pantelleria”. Un’eccellenza enologica, appunto, prodotta con le uve zibibbo, che, però, vede numeri pericolosamente in calo, sia per quanto riguarda gli ettari vitati e la produzione, sia per i consumi. D’altra parte, l’aspro paesaggio pantesco, disegnato dai terrazzamenti sostenuti da muretti a secco che si arrampicano sugli impervi pendii di una terra nera di origine vulcanica, rappresenta una viticoltura eroica che può contare solo sulle braccia dell’uomo, lavorazioni che, durante tutto l’anno, richiedono un monte ore di lavoro, per persona, che supera di almeno tre volte quelle necessarie alla coltivazione di un normale vigneto sulla terraferma. Un sistema produttivo che sta diventando sempre meno sostenibile, perché si perdono le vecchie generazioni e le nuove non trovano remunerazione in questa attività: l’abbandono dei vigneti e la mancata sistemazione dei muretti sta mettendo a rischio il paesaggio pantesco stesso, di cui il terrazzamento, emblema dell’equilibrio tra uomo e natura, ha dato vita alla cultura della lavorazione della pietra dalla quale sono nati il dammuso e il giardino pantesco, strutture necessarie a praticare l’agricoltura in un contesto difficile.
Il sistema di allevamento della vite ad alberello basso, con uno sviluppo vegeto-produttivo rasente i terreni, va difeso, tutelato e rilanciato. Un rilancio che è partito da Passitaly, evento che, a fine agosto, ha acceso i riflettori su quella che è una delle isole più suggestive del Mediterraneo.: “È uno strumento di valorizzazione dell’isola e del suo tessuto produttivo, che parte dall’agricoltura ma include anche ristorazione, ricettività, servizi e poi cultura, archeologia, antichi sapori, che qui hanno saputo generare identità e comunità -afferma il sindaco di Pantelleria Salvatore Gabriele- Attraverso la promozione del Passito naturale ci poniamo l’obiettivo di valorizzare la civiltà della vite in ogni suo aspetto. Sostenibilità, difesa del paesaggio, redditività della coltivazione della vigna sono gli elementi che vogliamo vengano riconosciuti e difesi”. Difesi con urgenza, perché gli ettari coltivati a uva zibibbo dai più di 7 mila di 20 anni fa sono scesi agli attuali 700 (ma c’è chi suggerisce 500), mentre la produzione complessiva delle tre Doc (Moscato, Passito e Pantelleria), declinate nelle diverse tipologie, è oscillata tra un minimo di 8.129 ettolitri nel 2010 a un massimo di 10.874 nel 2008. Seppur con difficoltà, il Passito di Pantelleria riesce a mantenere i propri numeri da produzione di nicchia. D’altra parte, è un vino dolce unico, Doc dal 1971, prodotto con uve zibibbo (da zebib, cioè uva passa), o moscato d’Alessandria, d’origine egiziana, ottenuto con una tecnica particolare, che contribuisce allo sviluppo dei suoi intensi profumi: si vinifica una parte dell’uva, mentre l’altra è fatta appassire per concentrare al massimo gli zuccheri. Il metodo antico prevede che l’uva appassisca in maniera naturale, stesa al sole, girando i grappoli almeno un paio di volte per un completo appassimento, che oggi avviene anche in serre e fruttaie termocondizionate dove il processo avviene in tempi più brevi. Quando, dopo 2-3 settimane, l’uva è appassita, viene aggiunta al vino durante la fase della macerazione. Si ottiene così un Passito dal colore giallo dorato tendente all’ambrato, con profumi caratteristici e molto intensi di frutta gialla, frutta secca e miele; in bocca è dolce e aromatico.
Il crollo produttivo è dovuto a diversi fattori. Fino a quando lo zibibbo, dolcissima uva da tavola, era consumata, appunto, fresca, venduta in Sicilia in grandi quantità, il vigneto era sufficientemente remunerativo. Poi questo mercato è entrato in crisi e ci si è rivolti maggiormente alla vinificazione, perché lo zibibbo trova nel Passito una delle sue espressioni più alte, ma con la chiusura di due grandi aziende che acquistavano le uve, molti viticoltori si sono trovati a non saper più dove collocare la produzione. Così, se da un lato diverse aziende siciliane hanno investito sull’isola dando slancio e prestigio alla produzione di Passito (ma anche di altri vini, liquorosi e fermi), diversi piccoli produttori si sono messi a imbottigliare cavalcando l’onda del successo del Passito naturale e oggi a Pantelleria operano 19 cantine.
Si deve in gran parte a Donnafugata e alla Carlo Pellegrino la sopravvivenza e il sostentamento della viticoltura pantesca. “Ultimamente ci siamo stabilizzati su circa 600 ettolitri di Passito di Pantelleria -racconta Antonio Rallo la cui famiglia è titolare di Donnafugata, il maggior produttore di questa tipologia nell’isola- Con 68 ettari, in proprietà e in affitto, contiamo il maggior numero di ettari, seguiti e coltivati sotto le precise direttive del management aziendale”. Sull’isola Donnafugata ha creato un’azienda modello: una struttura inserita a metà collina, abbracciata dai terrazzamenti curati come giardini. Qui nascono le uve del Ben Ryé, il vino che ha portato il nome di Pantelleria nel mondo: “Dodici contrade, quattro chili di uva per fare una bottiglia, tanta passione e molto lavoro manuale: almeno quattro volte rispetto a ciò che serve nei nostri vigneti in Sicilia. Piccole terrazze, sabbia vulcanica, vigne difficili da coltivare e uve difficili da raccogliere: molto spesso bisogna camminare con la cassetta in spalla per 100-150 metri su scomodi sentieri, però alla fine grazie a questo terroir incredibile nasce il nostro Ben Ryé. Appassiamo l’uva naturalmente, da un minimo di circa 20 giorni a un massimo di 30, ma il segreto è nel riuscire a costruire una squadra di persone che credono in quello che fanno. La prima annata è stata il 1989; oggi ne produciamo circa 80 mila bottiglie e ne esportiamo oltre il 50 per cento in 70 Paesi. Ma oggi il vino soffre perché non c’è mai stata un’attività di promozione, né del vino stesso, né del territorio: ognuno ha pensato solo al proprio brand. Passitaly può essere un’opportunità di promuovere l’isola in modo collettivo”.
È particolarmente alla Carlo Pellegrino, che ogni anno immette nell’economia pantesca quasi 2 milioni di euro per l’acquisto di uve zibibbo, che si deve la sopravvivenza di molti ettari di vigneto: “Negli ultimi due anni abbiamo comprato almeno 3 mila quintali di uva in più rispetto a quella che ci serviva, svolgendo da azienda privata un ruolo da cooperativa -sottolinea Emilio Ridolfi, direttore commerciale e marketing, evidenziando la contrazione di consumi per il Passito, in particolare negli ultimi 3-4 anni- Mentre tengono i liquorosi, anzi, c’è stato una sorta di travaso dai passiti ai liquorosi a causa del prezzo più contenuto”. La Pellegrino produce poco più di un milione di vini di Pantelleria; con i suoi 6 milioni e mezzo di bottiglie è la terza azienda vinicola siciliana e ha la leadership nel mercato del vino Marsala e nei vini dolci di Pantelleria, con oltre il 60 per cento di quota di mercato nei vini Doc di Pantelleria. Il suo cavallo di battaglia è Nes, Passito di Pantelleria, commercializzato in 60 mila bottiglie da mezzo litro (25 euro), riservate al canale horeca: un vino intenso e persistente, con sentori di fichi secchi, frutta candita, albicocca datteri e miele, caldo, morbido ed elegante. A Nes si affiancano il Passito liquoroso di Pantelleria, il Moscato liquoroso di Pantelleria, uno Zibibbo liquoroso Igt Terre Siciliane di Pantelleria, il Zukuà, mosto di uve zibibbo parzialmente fermentato, dolce, e il Gibelé, un profumato vino secco, blend con il 50 per cento di zibibbo più altre uve zibibbo dell’agro mazzarese. Continua Ridolfi: “Vinifichiamo il 70 per cento delle uve zibibbo di Pantelleria, cioè 18 mila quintali su una produzione totale dell’isola di 27 mila quintali. Il Passito liquoroso, che è un prodotto di più largo consumo, lo produciamo solo noi e rappresenta il 50 per cento di tutte le bottiglie prodotte a Pantelleria. Una segmentazione necessaria per rispondere alle diverse richieste dei consumatori, anche a livello di prezzo”. Il vino prodotto a Pantelleria rappresenta il 25 per cento del fatturato di Pellegrino e il 18 per cento dei volumi dell’azienda di Marsala, perché sono vini che hanno un alto valore aggiunto.
Tra i primi siciliani a investire sull’isola anche Marco De Bartoli, il cui testimone è passato al figlio Sebastiano, che segue i vigneti e la produzione a Pantelleria: il suo Passito si chiama Bukkuram, dall’arabo “padre della vigna”, nome che definisce la zona prediletta dagli Arabi per la coltivazione dello zibibbo. Qui, su un altipiano con esposizione sud-ovest, ci sono il vigneto dell’azienda, circa cinque ettari di terreno a 200 metri sul livello del mare, e la cantina, ospitata in un dammuso del ‘700. Bukkuram è prodotto con il 50 per cento di uve appassite al sole per almeno tre settimane in appositi stenditoi, delimitati da spessi muri in pietra lavica; il rimanente matura sulla pianta sino a settembre. A fermentazione avanzata, si aggiunge l’uva appassita in precedenza e la si lascia macerare per circa tre mesi fino a ottenere un equilibrato rapporto tra la componente alcolica e il residuo zuccherino. Segue un affinamento di almeno 30 mesi in fusti da 225 litri di rovere francese e 6 mesi in vasca di acciaio. Un’armonia perfetta tra struttura, acidità e morbidezza.
Salvino Gorgone è, invece, tra i “piccoli” che hanno deciso di vinificare le proprie uve, spinto dall’enologo Donato Lanati: la sua azienda e il suo Passito si chiamano Dietro l’isola. Ha circa quattro ettari di vigneto e produce 7-8 mila bottiglie, con il metodo tradizionale antico, lasciando le uve appena raccolte ad appassire su degli stenditoi di pietra pomice dove rimane circa 20 giorni, girando un paio di volte grappolo per grappolo. “La nostra è un’attività unica che oggi è messa in difficoltà in parte dalla crisi, in parte dalle nuove tecnologie: al sole oggi si appassisce poca uva, quasi tutti usano serre di nailon, forni e altro. Con il metodo tradizionale antico otteniamo prodotti di nicchia che trovano mercato per il 90 per cento da Roma in su, in ristoranti ed enoteche, a un prezzo di 25-28 euro”.
Anche Francesca Minardi, terza generazione della Cantina Minardi, la più antica dell’isola, fondata nel 1940, appassionata e determinata, produce il suo Passito di Pantelleria secondo il metodo antico, lasciando le uve appassire in maniera naturale, poi spremute e lasciate macerare durante la fermentazione a temperatura controllata al fine di estrarre gli aromi tipici. Le annate migliori sono lasciate maturare più dell’anno previsto dal disciplinare di produzione: il risultato è un vino con sentori di arancia amara, pasta di mandorle, miele di zagara, dolce, equilibrato e di corpo. Altre cantine producono ottimi Passiti naturali, da Vinisola, con il suo Arbaria, dal gusto vellutato, aromatico e dolce, dal profumo caratteristico di uva appassita, frutta matura e di fichi secchi, dal sapore dolce aromatico con retrogusto mandorlato, a Solidea, Abraxas, Basile, Salvatore Murana.
“L’agricoltura riparte se c’è una nuova generazione che investe in questa attività e per questo occorre non solo promuovere il territorio in termini di marketing, ma far sì che si evolva e diventi fonte di reddito essenziale -considera il sindaco Gabriele- A mio avviso manca la capacità unitaria di fare sistema, mentre ripartire e guardare avanti significa uno sforzo di aggregazione unitario che permetta anche di parlare a un universo di produttori che non sanno come completare la filiera e spesso hanno un problema di dove collocare le proprie uve. È il territorio che si deve riorganizzare: un sistema produttivo si alimenta se ha capacità di governare i processi. Ecco perché considero le nuove realtà imprenditoriali che si stanno formando sull’isola una risorsa. Abbiamo tanti punti di criticità, ma abbiamo anche una straordinaria potenzialità. Il Passito di Pantelleria ha bisogno di una sua vetrina e di una sua capacità di relazioni sia commerciali, sia istituzionali -aggiunge- Vogliamo dare un segnale di innovazione e di cambiamento ed è per questo che il ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina ha inaugurato Passitaly”. Per Ezechia Paolo Reale, assessore all’Agricoltura della Regione Sicilia, che ha seguito tutto l’evento, “occorre riconoscere al contadino di Pantelleria una funzione di ‘sentinella ambientale’, cosicché il suo lavoro in vigna assuma un valore aggiunto importante che la società deve poter sostenere. È necessario realizzare quelle condizioni che consentano di rendere attrattivo il recupero delle attività agricole e della vigna e far scendere nuove generazioni in campo. Per fare questo occorre mettere a sistema tutte le vocazioni economiche e culturali che Pantelleria esprime”. “Quella pantesca è un’economia che si sostiene sul vino e sul cappero -spiega Gabriella Pavia, assessore all’Agricoltura del Comune di Pantelleria- Ora stiamo cominciando anche a valorizzare l’ulivo e stiamo recuperando i vecchi uliveti con la cultivar biancolilla e portando avanti piccole sperimentazioni con le altre varietà, come la nocellara, che però fa fatica ad adattarsi al nostro suolo vulcanico”.
In tutta l’isola si producono 10 mila quintali di capperi, il produttore maggiore è la Cooperativa dei capperi, con 350 soci che ne produce 5.600 quintali. Si raccoglie un chilo di capperi (cioè i boccioli) per pianta (in 8 ore di lavoro circa 18-20 chili) e da maggio ad agosto la raccolta si fa ogni dieci giorni: una fatica immane, che spezza le gambe e la schiena. Ma il cappero oggi è remunerativo e alcuni agricoltori hanno tolto le viti per mettere i capperi. “Il Cappereto Bonomo & Giglio è tra i più antichi di Pantelleria -ricorda Barbara Bonomo- Fondato nel 1949, è l’unica realtà pantesca a essere azienda agricola, capperificio e laboratorio artigianale: selezione delle migliori materie prime lavorate nel modo più semplice possibile e rispettate nella loro unicità. Così, capperi al sale e sott’olio extravergine, paté, pesto e salda di capperi, cucunci (il fiore del cappero) al sale e sott’olio, rappresentano una produzione d’eccellenza, curata quasi maniacalmente e commercializzata con il marchio La Nicchia, che ha cominciato a farsi strada nelle gastronomie e nei negozi specializzati in tutt’Italia e anche all’estero, distribuito da Selecta”.
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