I ragazzi preferiscono i fornelli al posto in banca: è l’effetto MasterChef. Ma non è tutto oro quello che luccica: abbandono degli studi e disoccupazione sono dietro l’angolo, perché non è una professione per tutti. Viaggio nel mondo degli istituti alberghieri
Jenny Maggioni
Lo chiamano “effetto MasterChef”. Oggi, come ha rivelato un sondaggio della Coldiretti/Ixè, il 54 per cento dei ragazzi preferisce cucina, orto e cantina al posto in una multinazionale (21 per cento) o in banca (13 per cento). Questo si è tradotto in un boom di iscrizioni agli istituti alberghieri. Nell’anno scolastico 2013-2014, sempre secondo un’analisi della Coldiretti, sono 46.636 i giovani che si sono iscritti alle prime classi di scuole legate all’enogastronomia e all’ospitalità alberghiera, più della metà di quelli che hanno optato per le produzioni industriali, la manutenzione e l’assistenza tecnica (21.521), così come sono salite a 13.378 le adesioni agli istituti professionali e tecnici di agraria. Quindi, in sostanza, due cuochi per ogni futuro tecnico. Una vera escalation visto che rappresentano oltre il 9 per cento dei totale dei 515.807 neoiscritti alle scuole secondarie. Ma si tratta di una moda, influenzata dalla televisione e dal mito dello chef-artista, osannato come una rock star e dall’altrettanto ricco portafogli, di un’esigenza legata alla crisi di avere la (quasi) certezza di trovare lavoro in poco tempo o una vera e propria rivoluzione culturale?
“Conseguenza della crisi” dicono i professori. Tanti giovani scelgono questi indirizzi perché li percepiscono più vicini al modo produttivo. E lo confermano anche i dati delle università: ai corsi di Viticoltura ed enologia e Scienze e tecnologia agrarie il numero delle matricole è salito più del 50 per cento rispetto al 2012. Ma di certo, a tutto ciò, ha contribuito l’odierna immagine glamour del cibo, un mondo che oggi agli occhi dei ragazzi sembra più luccicante, e forse più tangibile, di quello della moda. Comunque che gli chef del futuro non rimarranno disoccupati era già stato detto dall’US Bureau of Labor Statistics confermando come, fino al 2018, questa sarà la professione più richiesta.
Sulla possibilità reale di occupazione futura non è d’accordo Paolo Faccin, dirigente scolastico del centro di formazione professionale Pia Società San Gaetano di Vicenza: “Si è creata una situazione a livello scolastico che io definisco una bolla e che nel tempo sarà destinata comunque a cambiare, perché stiamo costruendo dei falsi miti per colpa della televisione: di Cracco e simili ce ne sono e ce ne saranno sempre pochi. Se poi guardiamo le statistiche, dalle quali emergono che, forse realisticamente ma anche ottimisticamente, solo un 10-12 per cento dei giovani cuochi faranno questo mestiere, la questione la dice lunga. Stiamo spettacolarizzando qualcosa che invece va trattato in maniera molto più seria. Bisogna inoltre ricordare che se sì il 60-65 dei nostri studenti, grazie alla nostra qualifica di terzo livello riconosciuta a livello europeo, trovano lavoro nel settore, è solo accontentandosi (diventano aiuto cuoco, baristi, camerieri) e con contratti atipici, a chiamata. E se poi guardo ai bisogni reali del nostro territorio, Vicenza, dove ci sono altri istituti alberghieri, penso che stiamo sfornando un numero elevatissimo di disoccupati”. Il “problema” territoriale esiste ed è consistente anche per Silvino D’Ercole, dirigente scolastico dell’Istituto alberghiero Ipssar Giovanni Marchitelli di Villa Santa Maria (Ch): “I nostri diplomati vanno a lavorare o cercano occupazione fuori dall’Abruzzo, all’estero in particolare (Inghilterra, Svizzera e Stati Uniti, dove si trovano ancora opportunità), perché è chiaro che qui le possibilità non sono tante, anche se il settore turistico è in espansione. Per monitorare meglio la situazione dell’occupazione post diploma, al nostro istituto abbiamo avviato il Progetto Fixo, ponte tra scuola e mondo del lavoro, che aiuta i ragazzi ha trovare un concreto sbocco professionale. Comunque se fino a qualche anno fa, la percentuale dei nostri neo diplomati disoccupati era minima, soprattutto se si spostavano in altre regioni o fuori dall’Italia, oggi la situazione è difficile anche in questo settore”.
Il mondo del lavoro e le aspirazioni dei giovani stanno dunque cambiando e ridisegnando l’Italia che, forse, verrà. Ma ci si domanda se i ragazzi che una volta sognavano di fare il calciatore o il musicista e poi, dopo il liceo, optavano per Ingegneria o Scienza della comunicazione, e che oggi si buttano invece dietro ai fornelli, sappiano realmente quanto faticoso sia il lavoro del cuoco e quanto veramente valga la filiera agroalimentare italiana. “Non sempre i ragazzi sono consapevoli di ciò che comporta il lavoro di cuoco -afferma il dirigente scolastico dell’Ipsar Carlo Porta di Milano, Francesco Antonio Malaspina- Non a caso nelle prime classi vi è un elevato tasso di bocciatura e, nella mia scuola, solo il 40 per cento porta a termine gli studi. Anche se entro un anno dal diploma il 70 per cento dei miei studenti trova lavoro”. Opinione ben condivisa anche dai suoi colleghi: “Per un numero esiguo di alunni la consapevolezza delle difficoltà e, soprattutto, di quando dovranno lavorare (quando gli altri sono in vacanza) è chiara, ma per la maggior parte no: sono catturati dall’immagine del cuoco televisivo così, se nel mio istituto l’80 per cento si diploma, solo il 20 per cento si dedica poi alla professione”, spiega Franco Bonzi, preside dell’Ipssar di San Pellegrino Terme e per Faccin “non ci si rende conto delle reali difficoltà di questa professione e i media non aiutano. Far capire alle nuove generazioni che si deve lavorare mentre gli altri fanno festa quando le prime domande che fanno a un futuro datore di lavoro sono ‘Quanto prendo?’ e ‘Che orario faccio?’ è davvero difficile e a volte devastante”.
E non solo tanto lavoro, per giunta nelle vacanze, ma anche tanto studio si nasconde dietro questa professione, tanto che la famosa frase delle mamme arrabbiate di un tempo “se non studi ti mando all’alberghiero” oggi non ha più molto senso: “Un buon cuoco non è solo una persona che possiede i rudimenti del mestiere, ma anche soprattutto una persona informata, colta”, ha sempre raccomandato Gualtiero Marchesi. Quindi filosofia, storia, ma anche studio del management e del team building, sono le materie che i giovani cuochi non possono trascurare nel loro profilo professionale. E magari dopo le superiori pensare anche alla laurea “soprattutto per ragazzi non convinti, ma studiosi”, consiglia il preside Bonzi. Per i diplomati motivati meglio, invece, gli stage all’estero, secondo Malaspina.
Proprio la formazione è un nodo cruciale. Sono, infatti, molti i grandi chef che esprimo dubbi sulla reale preparazione fornita dagli istituti alberghieri: dal bistellato Giancarlo Perbellini per il quale “sembra che la scuola non sia capace di far capire quale sia la nostra realtà lavorativa, oggi idealizzata dalla televisione”, alla giovane stella Michelin Lorenzo Cogo che è ancora più duro: “In cucina vedo stagisti provenienti dalle scuole di diverso tipo la cui preparazione scolastica è spesso penosa”. Opinioni queste condivise anche dagli imprenditori. Si pensi che l’indirizzo considerato più difficile da reperire tra i diplomati nel 2013 è quello agrario-alimentare dove addirittura per il 32,5 per cento delle assunzioni programmate ci sono imprese che hanno difficoltà a trovare personale adeguato per un deficit in termini di formazione ed esperienza, ma anche di aspettative con le offerte delle aziende che non corrispondono pienamente ai desideri del candidato. “Bisognerebbe definire con sufficiente precisione quali siano le competenze in uscita che richiedono le aziende”, suggerisce il preside del Carlo Porta. E rivedere i percorsi formativi, soprattutto nelle scuole statali: “Negli istituti professionali di Stato oggi le materie culturali, scientifiche e teoriche sono preminenti rispetto a quelle pratiche -spiega Faccin- Certo sono importanti, ma occorre che un cuoco faccia esperienza ai fornelli e nei laboratori. La mia scuola, ad esempio, prevede il 50 per cento di materie scientifiche e il 50 per cento di materie tecnico-pratiche, il 90 per cento delle quali è svolto in laboratorio, in cucine con tecnologia e con macchine modernissime, ma, purtroppo, spesso negli istituti di stato questo non è possibile”. A Faccin fa eco Bonzi: “Le varie riforme hanno diminuito notevolmente le ore professionalizzanti e l’insegnamento delle varie lingue che sono state sostituite da materie di cultura generale”. D’accordo anche D’Ercole: “Il curriculum adesso dà più spazio alle materie di cultura generale e teoriche, ma si è ridotto quello per i laboratori. Noi cerchiamo di mediare incrementando le ore pratiche, di alternare le attività scuola-lavoro, come gli stage, e di organizzare delle manifestazioni e degli eventi in cui i ragazzi possano mettersi in gioco in concreto”.
Una prova del problema arriva anche dalla recente cronaca con una protesta di alunni e insegnati: nella Scuola alberghiera Azuni di Cagliari non ci sono le cucine e gli alunni devono fare i pendolari fino alla sede di Pula, a trentadue chilometri dal capoluogo. Un paradosso tutto italiano davvero insostenibile in quella che è la patria mondiale riconosciuta della cucina e dell’ospitalità.
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